Come stai? Mi ha chiesto un’ex collega qualche giorno fa. La domanda più frequente e la più ostica. Le ho risposto d’istinto: tenacia e tenerezza mi sono compagne. Poi ci ho riflettuto, mi piace pensare che in questo momento di passi fermi non perda di vista chi cammina con me.
Con te non mi sento mai sola. Mai persa, mai smarrita, confusa. Mai spensierata, leggera, altrove. Con te sono sempre presente a me stessa. Ho piena consapevolezza del mio corpo, del mio sentire. Con te vado a letto e con te comincio il giorno. Con te vivo e sì, mi sento viva. Perché solo chi è morto non prova dolore.
Mi sono spesso interrogata su cosa fosse questa mia propensione al dolore, come qualcosa che mi portava alla ricerca, che mi muoveva. All’incontro, alla vicinanza, alla conoscenza profonda. Forse quello conosciuto o forse, penso ora, il dolore che doveva arrivare. La mia vita con un dolore cronico.
Ogni pomeriggio, dopo le attività scolastiche, i bambini ascoltano musica dal tablet. Ore intere a ballare come matti: meravigliosa espressione di libertà, della quale Marco ed io tramandiamo l’importanza tramite il buon esempio. Per sfogo di energie, per superare le timidezze, per svoltare una giornata triste o anche solo per amore, noi balliamo in mezzo al salone.
Viviamo distanti.
E non è solo per la mancanza di contatto, di abbracci, di strette di mano, di pacche sulla spalla, di sussurri all’orecchio, di occhiolini, carezze, risate fuse insieme. Viviamo distanti a ogni videochiamata, quando ci avviciniamo a uno schermo, uno schermo, quando urliamo (che è il volume della distanza) e metà del tempo la passiamo a dire mi senti? Non ti sento. Con le voci metalliche o interrotte, o in pausa, o lontane. Distanti.
Nella classe di Davide la storia si studia partendo dalla propria, anzi dalle fonti. Così insieme abbiamo cercato fotografie di lui piccolino, e biglietti e ricordi. Ed è lì che sono spuntate vecchie foto di me e Marco ragazzini, pischelli ignari di ciò che sarebbe stato. E una foto di me, ventenne, capelli lunghi e abbronzatura, un primissimo piano per due occhi molto grandi per una piccola donna. Ero bella e non lo sapevo.