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Cosa dice mamma, Cosa fa il mondo

Non siamo nati per soffrire

Da dieci giorni è morto Leonard Cohen la cui vita ricorda alla mia quanto può essere sensuale una voce e profonda una musica, e che in tanta profondità possono coesistere poesia, eleganza, preghiera. Mi ricorda un amico che lo ama e un figlio che non lo conosce ma lo riconosce in una canzone. Mi ricorda De Andrè e mi ricorda un verso su tutti: C’è una crepa in ogni cosa ed è così che entra la luce.

Non voglio dire, banale come il male, che la sofferenza serve perché ci rende più forti. Non è un mezzo.
E nemmeno voglio credere che siamo nati per soffrire. La sofferenza non è un fine. Pur tuttavia è vero che siamo nati col soffrire.

Sono diventata madre con due parti spontanei e senza epidurale. Non mi sono risparmiata neanche un briciolo di quella sofferenza tutta femminile che ti fa pensare, sempre, voglio morire proprio quando in realtà stai per nascere. Ricordo che tanto mi ha aiutata pensare che in sala parto non ero sola. Non c’era mio marito. Eravamo io e il mio bambino. Il mio unico corso pre-parto furono cinque minuti col mio ginecologo: “Segui il tuo corpo e respira. Respira profondamente perché questo servirà a ossigenare il bambino”. Dal mio respiro dipendeva il suo respiro. Dalle mie spinte, le sue spinte. Dalle mie lacrime, il suo primo vagito. Dalla mia crepa, la sua luce.

Un amico osteopata mi ha poi spiegato che la compressione cranica, che avviene quando il bambino passa dal bacino della mamma, permette di “resettare” il cranio e favorire la circolazione del liquor. In caso di cesareo, infatti, sarebbe opportuno un trattamento alla nascita che sostituisca quello previsto in natura. Per natura, dunque, si soffre alla nascita ma questo, come dire, ci schiaccia e allo stesso tempo apre la mente.

Quando è nato il mio primo figlio, avevo il terrore della fontanella. Alla nascita del secondo ho visto che, pur neonato, poteva reggere il peso del fratello sul pancino, un morso al piede e un telecomando in testa. Forse non siamo nati per soffrire ma siamo fatti per soffrire, cioè in grado di “portare su” il peso. Perché possiamo farlo e perché è così che ci resettiamo e troviamo il nuovo respiro. A chi soffre, s’offre una possibilità. Con questo non voglio dire che la sofferenza sia un dono. Non è la nostra croce necessaria, non è la nostra strada per la saggezza. Semplicemente, è. Non so definirla ma posso definire me dinanzi a essa.

Quella crepa è in me, e sono io che vengo alla luce.

Ps: Grazie ad Andrea Prandin che ieri, in un reparto pediatrico, ha detto le parole migliori che si potessero dire. Del resto, cosa s’offre a un bambino che soffre? Ecco, citandolo: “Non lo so”.
Ma quando una domanda si pone, qualcosa si rompe. Si forma una crepa.

L’immagine è tratta dal libro “L’uovo e la gallina” di Iela ed Enzo Mari (Babalibri)

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