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Cosa dice mamma

Ciò che sento, ciò che devo

“Non è successo niente” diciamo spesso ai bambini quando cadono e si fanno male. “Non piangere, non è niente”. Ma come niente? Qualcosa è successo. Correva, è caduto. Piange. Com’è comprensibile che sia, se è ferito o spaventato.

Non vuol dire fare dei nostri figli ingenui piagnoni. Solo delle persone cui è concesso esprimere il proprio sentire. Mille errori avrò fatto come madre e mille ne farò. Ma di una cosa sono felice: non aver mai detto ai miei figli, in procinto di fare nuove esperienze, “non avere paura”. E perché mai? Non abbiamo forse timore di ciò che non conosciamo o di ciò che percepiamo come pericoloso? Ho sempre detto a loro e a me stessa che la paura si affronta. Non è un nemico. È un’emozione, al pari della felicità. E mi onora che oggi si sentano in diritto di dire: Ho paura. E io di dire: Lo so. Affrontala.

Alle donne che hanno appena partorito diciamo: “Devi essere felice”. Devi? Lungi da me negare le gioie della maternità. Ma non potrei neanche negare il dolore fisico che provavo a causa dei punti che mi impedivano di sedermi, o la stanchezza di quando avevo un bambino di un anno e un neonato di qualche giorno. E non avevo latte. E mi chiudevo in bagno a piangere. Ero felice ed ero distrutta. Ero grata ed ero terrorizzata. Ero molte cose. Di certo non ero ciò che dovevo. Il nostro sentire non coincide necessariamente con il comune sentire per quella certa situazione.

A un genitore in lutto diciamo: “Devi essere forte”. Davvero? Dopo quello che deve sopportare, vogliamo anche dirgli ciò che deve provare? Accolgo il tuo sentire, invece. Lo colgo come un fiore, lo raccolgo come qualcosa in bilico. Perché se non lo facessi, lo farei cadere a terra, seccare. Morire, senza comprensione. Ciò che sento è un mio diritto, non un mio dovere.

“Ora devi andare avanti”, diciamo alla persona che ha perso il lavoro. “Troverai di meglio, chiusa una porta si apre un portone”. Ma io non voglio porte. Voglio aria fresca. Voglio sentire la corrente, voglio muovermi, voglio i capelli scompigliati dal vento della rabbia, non lo chignon raccolto di chi deve stare composto. Voglio ciò che mi somigli.

Al bambino che cade asciugo la lacrima, permettendo che scenda. Perché così si alzerà da solo col desiderio di correre ancora. Della madre impaurita, ascolto lo sfogo (e preparo da mangiare, magari!). Al disoccupato non parlo di un futuro che non conosco, faccio presente le sue risorse. Al genitore che soffre, offro il mio silenzio, se “non ho parole”. “Lei non vorrebbe vederti così. Tu devi resistere. Lui ha bisogno della tua forza”. Trovo più rispettoso uno spazio bianco che un elenco dei doveri. Perché il mio spazio bianco è l’altrui spazio di libertà.

Ciò che sento non lo invento. È il mio momento. Se lo accogli, stammi accanto.

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